Le teorie comportamentali sulla leadership: i 2 approcci principali

teorie comportamentali

Datemi una dozzina di bambini normali, ben fatti, e un ambiente opportuno per allevarli e vi garantisco di prenderne qualcuno a caso e di farlo diventare qualsiasi tipo di specialista, che io volessi selezionare: dottore, avvocato, artista, commerciante e perfino accattone e ladro, indipendentemente dalle sue attitudini, simpatie, tendenze, capacità, vocazioni e razza dei suoi antenati.

John B. Watson – Il comportamentismo –

Le teorie comportamentali sulla leadership, rispetto alla teorie caratteriali, spostano il punto di vista da un approccio caratteriale ad un approccio di tipo comportamentale, cercando di rispondere alla domanda

Un buon leader che cosa fa?

Negli Anni ’30, lo psicologo J.B. Watson, facendo degli esperimenti su un bambino di 11 mesi, aveva dimostrato che era possibile condizionare le persone, mediante stimoli, modificandone il comportamento: le risposte agli stimoli costituivano l’apprendimento.

Questo esperimento creò un mito su come il comportamentista avrebbe potuto modificare a piacere il comportamento di un individuo umano, cominciando a condizionarlo opportunamente fin dai primi mesi di vita.

L’approccio comportamentale ha gettato le basi per le teorie comportamentali sulla leadership, dichiarando in fondo che

leader efficace non si nasce, ma si diventa, imparando attraverso l’osservazione delle abilità da acquisire e sviluppare.

Approfondiamo meglio le teorie comportamentali più comuni.

Lo sviluppo delle teorie comportamentali sulla leadership

Il comportamentismo di J, Watson, gettò, quindi, le basi  per l’approccio comportamentale della leadership che va alla ricerca di come come si comporta un leader efficace.

Scopriamo ora le due teorie comportamentali più diffuse.

Teoria del Comportamento

La Teoria del Comportamento va a sfatare il mito del “leader nato” a favore di un “leader costruito”, attraverso l’apprendimento di comportamenti.

La teoria si basa sulle seguenti assunzioni:

  • leader non si nasce, ma si diventa;
  • leader si diventa guardando gli altri leader cosa fanno.

Tale teoria, basata principalmente sugli studi D. McGregor (1960), R. Blake e J. Mouton (1964), apre totalmente le porte allo concetto di sviluppo della leadership, in contrasto con le un po’ più semplicistiche valutazioni della teoria caratteriale che separa le persone che hanno i tratti per essere potenziali leader da quelle che non hanno nessuna possibilità.

Senza dubbio il punto di partenza è fondamentale, soprattutto per gli aspetti riguardanti  una della 3 differenti prospettive di leadership, la micro-leadership, che si concentra sui vari stili di leadership e dei conseguenti comportamenti.

La mia personale critica è che, anche questa teoria, come quella della Grande Persona, si pone solo ad un estremo delle tre prospettive sulla leadership, né tenendo conto della macro-leadership, né considerando la leadership come un processo di relazioni.

Tale teoria ha generato comunque degli schemi pratici da seguire, principalmente nati dagli studi sul management, fondamentalmente concentrati sugli stili gestionali e comportamentali che i manager tendono ad adottare.

Lo schema più famoso è la La Griglia Manageriale di Blake e Mouton, che puoi approfondire meglio nel tutorial

>>> Scopri il tuo comportamento da leader con la griglia manageriale

Teoria della Partecipazione

Tra i vari filoni comportamentali, uno in particolare si è concentrato sul grado di partecipazione che hanno il leader o i suoi collaboratori nella scelta delle decisioni.

Ne è nata la teoria detta “partecipativa”, che ha avuto molta applicazione presso la cultura aziendale giapponese con gli studi di W. Ouchi.

La teoria si basa sulle seguenti assunzioni:

  • il coinvolgimento nel prendere decisioni migliora la comprensione delle problematiche da parte di quelli devono eseguire le decisioni prese;
  • le persone si impegnano di più quando vengono coinvolte nelle decisioni;
  • le persone sono meno competitive e più collaborative quando lavorano su obiettivi condivisi;
  • più persone insieme prendono migliori decisioni che una persona da sola;
  • il leader, comunque, si riserva il diritto accettare il contributo degli altri e a lui spetta da decisione finale.

Il leader partecipativo, piuttosto che prendere decisioni autocratiche, prova a coinvolgere le altre persone nel processo decisionale, includendo i collaboratori, i pari, i superiori e gli altri interessati.

Chiaramente ogni leader può essere più o meno partecipativo.

La lista seguente mostra i 5 diversi livelli che ci possono essere, passando da una leadership non partecipativa (livello zero), arrivando ad una leadership altamente partecipativa.

  • 0 – assenza di partecipazione

 Decisione autocratica del leader.

  • 1 – bassa partecipazione

 Il leader propone decisioni, ascolta i commenti degli altri, poi decide.

  • 2 – partecipazione

La squadra propone le decisioni, il leader prende la decisione finale.

  • 3 – alta partecipazione

 Decisione congiunta leader e  squadra alla pari.

  • 4 – delega

Completa delega della decisione al team da parte del leader.

Il lato negativo di tale teoria è che, quando un leader chiede le opinioni e non le trova adeguate, può portare i collaboratori al cinismo, ai risentimenti, alla riduzione della motivazione e dell’impegno.

Da questa teoria, studiando il comportamento e il grado di partecipazione che hanno il leader o i suoi collaboratori nella scelta delle decisioni, sono nati due filoni di stili fondamentali, riguardanti soprattutto il tipo di rapporto tra il leader ed il collaboratore,

che anche se ormai datati, sono stati fondamentali, e al loro tempo innovativi, per gli sviluppi successivi sugli stili e i modelli di leadership.

Approfondisci nei due tutorial

>>> Leadership comportamentale: scopri i 3 stili di Kurt Lewin

>>> Leadership partecipativa: scopri i 4 stili di Rensis Likert

Nel prossimo tutorial scoprirai le teorie situazionali sulla leadership!

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